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Ribellione, coraggio, luce

Così tutto è cambiato.

Il lungimirante critico Louis Leroy ha battezzato, con abluzione nello scherno, il trentaquattrenne Claude, e i suoi  colleghi di pennellata libera, gli Impressionisti.

Lo spunto lo prese da Impressione, levar del Sole, opera che Claude Monet aveva esposto nello studio del fotografo Nadar, per la prima mostra della Societé anonyme des peintres, sculpteurs et graveurs nel 1874. Tra di loro ci sono Monet, Renoir, Pissarro, Degas, Cézanne e Berthe Morisot.

Sino ad allora, la mostra unica dell’arte ufficiale era il Salon, organizzata dai Académie des Beaux-Arts. La differenza di fondo sta nel “qualcosa in meno”, che gli impressionisti rubano finitezza della rappresentazione. E nel “qualcosa in più”, che lasciano intrecciare tra pennellate e sensazioni, nello spazio che emerge tra i colori, appoggiati appena, sulla tela.

Lo spessore del colore nei tubetti, si fonde con le idee en plein air, e giochi nuovi di luce e ombra irrompono sulla tela con la forza del sole vero. Un approccio nuovo alla natura, figlio legittimo, anche se non riconosciuto, dei lunghi anni di formazione e tratti imprigionati nel realismo.

Il loro desiderio era rappresentare una verità moderna, saldando i cambiamenti nel colore. Perciò studiavano il modo in cui la luce colpiva luoghi e persone, cercando di fermare l’attimo sulla tela, alleandosi ai colori complementari.

Ribellione, coraggio, luce.

Immagini, contorni e sfumature, messe in musica dall’animo introverso di Claude Debussy, che divide il tempo, solo di rado, in parti proporzionate.

Impressioni sonore non ragionate con continuità, che bene si accompagnano alle pennellate spudorate di Claude e dei suoi, che potrebbero suonare così:

 

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“Dipingo le cose come stanno”

Henri de Toulouse-Lautrec se non avesse avuto la pittura, probabilmente, si sarebbe ucciso.

Cerca nei dipinti un’iniziativa assoluta, una maniera cosciente di aprire la porta sul contemporaneo. Il suo fatto pittorico é spontaneo quanto attuale per la Parigi del tempo. La ricchezza della sua famiglia e la sua opera, libera dalla schiavitù del riconoscimento, gli concede il lusso della verità. Ma anche due cadute da cavallo.

Due femori rotti.

L’altezza spezzata come prezzo da scontare per l’hobby da famiglia bene. Il padre Alphonse II, dopo queste disgrazie, smetterà completamente di considerare suo figlio 17enne che, pure, così degno lo ritrae.

Henri allora costruisce un mondo altro, suo. In quelle”maledette strade”di Parigi, nelle case chiuse in cui passa gran parte della sua vita, sino al Moulin Rouge.

Lì poteva essere.

 

Angoli al limite della Città, come al limite di se stesso é stato costretto a condurre la sua esistenza, ma con acume, sguardo e ironia tali da lasciare andare pennellate improvvise, immagini sensibili e pochi colori. Quelli che bastano per stampare su una sua affiche, la realtà sincera, che oggi lo farebbe sentire, almeno per noi, accettato e familiare.

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