Nel paese di Mussumeli c’è un castello.
Il castello del paese di Mussumeli poggia sulla roccia.
A Mussumeli vive da sempre Maria. Quando la voce che stava per nascere un bambino cominciava a rimbalzare tra le porte del paese, Maria spennava una gallina. Sessantacinque colli tirati per festeggiare la vita. E Maria arrivava anche se la voce si infilava a fatica tra le imposte, quando erano serrate dal dolore.
Prega spesso Maria, ha confidenza con il rosario, e la sensazione di premere cinquanta volte una tonda vergine speranza tra i polpastrelli, si ferma più a lungo del dovuto nelle mani, che, ormai abituate, tornano sempre a rifugiarsi l’una nell’altra, come sanno. Le sue dita, ora, non stanno mai completamente distese, quando accompagnano le parole, andando in cerca di attenzione, prendono un ritmo orizzontale e deciso, come a disegnare il tono della voce.
Se Maria stringe il pugno, i nodi sulle nocche si devono spartire un profilo che si è fatto troppo stretto per restare regolare. Viene facile immaginare quelle mani che facevano la guerra ai panni, addomesticando un sapone di quelli scomodi, rettangolari e grandi, oppure mentre si destreggiano, ancora del tutto a proprio agio, nella farina, firmando con semi di papavero e sesamo, il pane che nessuno in famiglia è ancora riuscito ad imparare a fare uguale.
Maria si è sposata sessantanove anni fa, quando aveva ventuno anni.
Di quel giorno custodisce due foto, una sulle scale della chiesa di Mussumeli, l’altra nella Piazza Grande. Conserva al dito anche la fede che per sessantacinque anni ha seguito i gesti di suo marito, le sta un po’ grande, è fermata sul davanti dalla sua, che la lascia muoversi comoda, ma senza allontanarsi mai.
Le mani di Maria hanno accarezzato la testa di quattro figli, otto nipoti, e quattro pronipoti.
Una delle sue figlie si chiama Maria anche lei, Maria la piccola. Lei sta seduta composta, ti guarda dritto in faccia, e scandisce bene le parole, dando loro un posto preciso. Sembrano molto diverse, ma il momento in cui gli occhi si schiudono nella stessa melodia rimane impresso. Hanno in comune la speranza, e il dono di dimenticare. In una vita non ci sono giorni che ritornano, né sguardi tali e quali, ma quando i sorrisi di mamma e figlia si tengono fra le braccia si crea un’armonia. Sono diversi, come due gocce d’acqua.
Maria ha una nipote, si chiama Caterina. Una notte Caterina ha dovuto fermare la nonna mentre correva sul letto inseguendo una gallina. Una impudente gallina, che aveva disturbato il suo sogno cercando di rubarle i biscotti. Doveva essere punita.
Vederle vicine fa venire voglia di felicità, la pelle è nota alle pelle, e le loro teste sono piene di libertà e di quella leggerezza vigile, che ha il potere di rendere unica ogni piccola cosa.
A Natale Maria, Maria e Caterina cucinano insieme, preparano i biscotti e li ornano seguendo un disegno: quello del pizzicatore, costruito dal marito di Maria apposta per lei, che ricama autorevole la sua sigla.
In queste occasioni anche le risate possono scoprire di non sapere più riconoscersi per quanto si assomigliano.
Si racconta dei venti alberi di fichi piantati dal padre per la passione di Maria la piccola, dello zoccolo preso in faccia quella volta che i vicini stavano litigando, o del fuoco acceso di nascosto per togliere di mezzo tutto quello che era seccato.
Anche le pene volgono in riso, e i pensieri di gioia assolvono per qualche tempo i lunghi ricordi tristi.
Il mondo che si crea tra loro non è ovvio per niente, ma un’occasione unica, la cui atmosfera non può essere dipinta, né raccontata da magnifici paragoni. Una verità straordinaria, a cui però non si può fare a meno di prestare attenzione.
Tutto è accaduto tempo fa, ed è accaduto ieri.