Marc Chagall non era francese. Nato a Vitebsk il 7 luglio del 1887, il suo nome russo era Mark Zacharovič Šagalov, abbreviato in Šagal. A suo dire un artista è “un evangelista, un santo, un profeta” e certamente non mostra timore nello spostare questa convinzione sulla tela, seppure con ironia, mossa da desideri discontinui. E’ un modernista moderato, un pittore che non si ferma alla superficie del quadro, ma vi introduce elementi immaginifici, a cui facciamo l’abitudine, e che presto acquisiscono sapore vernacolare.
Chagall si sarebbe trovato bene dentro a una favola di Jean de La Fontaine, come quelle che illustra; un mondo in cui gli spazi non subiscono delimitazioni e il confine tra emozioni ed esterno si fa labile. Una dimensione in cui i colori sono messi in posa come in una rappresentazione teatrale e vita e speranza possono rifiorire protette dall’immaginazione.
Il suo uso del colore rende solida la composizione, anche più dell’eredità costruttivista delle avanguardie, che ancora si rintraccia nelle pennellate geometriche sullo sfondo. Ogni dato cromatico scandisce una dimensione espressiva gioiosa esclusiva, segue quello che si mescolava dentro a Chagall, armonioso e convincente allo stesso tempo. Non si tratta di opere scevre dalla realtà, ma dell’invenzione (nel senso più letterale) di un mondo altro, leggero. Le connotazioni suggerite non sono completamente surreali, spingono invece a cercare più a fondo, tentano di rappresentare sensazioni invisibili, ma assolutamente esistenti.
Ne La passeggiata (1918) il sorriso si schiude ad oltranza sul protagonista e su chi osserva il quadro: un vero e proprio manifesto della felicità. Un tentativo di sfuggire al mondo, nutrito dalla libertà stretta nella mano e inebriato dall’anima speciale di Marc Chagall.
VS
La passeggiata improvvisa (Franz Kafka – 1912)
“Quando la sera sembra ci si sia definitivamente risolti a restare a casa, si è indossata la veste da camera, dopo cena si siede al tavolo illuminato e si è iniziato un qualche lavoro o gioco, concluso il quale d’abitudine si va a dormire, quando fuori c’è un tempo ostile che rende naturale il rimanere a casa, quando ormai si è rimasti fermi così a lungo accanto al tavolo che l’andarsene non potrebbe che suscitare la sorpresa generale, quando le scale sono già buie e il portone sbarrato, quando ora, nonostante tutto, ci si alza presi da un disagio improvviso, ci si cambia la giacca, si ricompare subito vestiti per uscire, si dichiara di dovere andare, e lo si fa senz’altro dopo essersi brevemente accomiatati, si pensa, giudicando dalla rapidità con cui la porta è stata sbattuta, di essersi lasciati alle spalle più o meno contrarietà, quando ci si ritrova in strada, con membra che rispondono con particolare mobilità alla libertà inattesa che si è loro procurata, quando per quest’unica decisione si sente raccolta in sé ogni capacità di decisione, quando con evidenza maggiore del solito si comprende che, più che il bisogno, si ha la forza di operare e sopportare facilmente il cambiamento più repentino, e quando si cammina così per le lunghe vie – allora, per quella sera, si è usciti del tutto dalla propria famiglia, che s’allontana nel nulla, mentre noi, saldissimi, neri per l’assoluta nettezza dei nostri contorni, battendo con le mani dietro le cosce, ci si innalza alla nostra vera figura.”