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I sogni e i colori di Mirò

“Lo spettacolo del cielo mi sconvolge. Mi sconvolge vedere, in un cielo immenso, la falce della luna o il sole. Nei miei quadri, del resto, vi sono minuscole forme in grandi spazi vuoti.”

(Joan Miró)

Joan Miró nasce a Barcellona poco prima della fine dell’Ottocento, e la sua trasgressione anticonformista riempie di tratti liberi e di colori le sue sensazioni più intime, trasferendole sulle sue tele, in maniera empatica e brillante.

Un linguaggio artistico che rifugge le convenzioni del tempo in modo così incisivo da divenire universale.

Trascorse l’ultimo periodo della sua vita “lavorando come un giardiniere” nella sua villa/atelier a Maiorca, immerso in quell’atmosfera naturale di fanciullezza che mai abbandonerà la sua pittura.

Paesaggi, animali, elementi naturali sono la sua principale fonte di ispirazione. La sua pittura si perde nell’osservazione del cielo sfumata tra i sogni, che è la stessa dimensione in cui ci trasporta se ci abbandoniamo alle sue linee spontanee ed emotive.

 

Un importante esponente del Novecento che, con la sua poesia, restituisce una  visione del mondo personalissima.

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Léger, il fabbro della pittura

“Di questi tempi tutto ciò che vediamo attorno a noi è basato sull’esattezza”

Ferand Lèger nasce nel 1881 ad Argentan, cittadina di provincia della Normandia, da un allevatore di bestiame. La sfiducia della sua famiglia nelle risorse offerte dalla pittura è totale. Vorrebbero che il giovane andasse verso l’architettura, un vero mestiere, che effettivamente Fernand svolgerà a Parigi come disegnatore architettonico, e, da cui, probabilmente deriverà la sua esattezza in pittura.

Per Fernand arte significa soprattutto l’incalzare delle contraddizioni, la coesistenza del tratto geometrico, con la linea tutta sensibile, apprensiva, del colore trattato quasi come una macchia, come fattore di costruzione e, al tempo stesso, generatore di luce.

Léger debutta come impressionista, ma seguirà tale linea con sempre minore convinzione, sino ad abbandonarla completamente, quando si rende conto che la civiltà industriale necessitava di un altro tipo di linguaggio, basato su contrasti e dissonanze. Le sue linee sulla tela scatenano conflitti tra coni oscillanti, prismi, cilindri e forme geometriche, dominate dalla ragione.

“Occorre misurarsi con la finitezza della tecnica”

Ciò che l’evoluzione dei tempi esige, è inventare immagini di macchine, come i suoi contemporanei immaginavano paesaggi. Gli elementi meccanici sono un mezzo per esprimere una sensazione di forza, di potenza, la stessa destinata a meccanizzare e cambiare il mondo.

 Gli elementi della rappresentazione volteggiano, si spaccano, come mele mature che si liberano dalla buccia. Il cambiamento diviene un cambiamento di visione, il quadro diviene un luogo di scontro tra oggetti e forme, assistito da una lucidità e un rigore che Fernand Léger persegue da anti-espressionista dichiarato quale è.

Pioniere della pittura della città e dell’industria, era un pittore molto lento, legato ad lungo lavoro preparatorio, scevro da ogni improvvisazione. Crede in una sapiente interazione tra volumi, ampie, piatte e audaci superfici di colore che si esibiscono senza espedienti.

Elogio dell’Esattezza

“Esattezza vuol dire per me soprattutto tre cose:

1 – un disegno dell’opera ben definito e ben calcolato;

2 – l’evocazione d’immagini visuali nitide, incisive, memorabili; in italiano abbiamo un aggettivo che non esiste in inglese, “icastico”, dal greco “eikastikós”;

3- un linguaggio il più preciso possibile come lessico e come resa delle sfumature del pensiero e dell’immaginazione.”

Parola di Calvino. Nelle sue Lezioni Americane, questa definizione sembra un lavoro sartoriale dedicato alle fisionomie plastiche di Léger, come un’armatura da indossare per partire all’avventura nella loro comune battaglia, alla conquista di “un” equilibrio.

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La gabbia delle belve feroci

“Dal momento in cui ho tenuto la scatola di colori nelle mie mani sapevo che questa era la mia vita. Mi sono buttato dentro come una bestia che precipita verso la cosa che ama”

(Henri Matisse)

L’unico movimento cui è possibile ascrivere interamente l’opera di Matisse è il fauvismo, le belve, coloro che realizzano tele come farebbe un bambino che gioca con i colori.

Almeno questo è quanto pensavano i suoi contemporanei all’inizio, quando si vedevano aggrediti da verdi e viola vibranti, da campiture di rosso acceso, blu profondo e verde, poste tutte sullo stesso piano, come un gioco al massacro.

Per Matisse i colori dovevano creare la luce, essere accostati senza alcun preconcetto, ricercando, sopra ogni cosa, l’espressione.

 

L’interiorità armoniosa e il suo religioso senso di rispetto per la vita sprizzano gioia fuori dalle tele, prima grazie alle pennellate coraggiose e non sfumate, e dopo, disegnando con le forbici nel colore puro.

Le carte ritagliate

Dopo il 1948 Henri Matisse non dipinge quasi praticamente più. Ritaglia con grandi forbici da sarto fogli colorati con la tecnica del “guazzo” cioè con colori addizionati di gomma arabica e pigmento di carico per risultare più brillanti.

Li posiziona nella sua composizione, aiutato dai suoi assistenti, e poi li ritocca, e li ritaglia, e li riposiziona, sino a che l’equilibrio non lo soddisfa. Diventa un po’ come scolpire colore puro, potendo accostare cromie pure, senza la mediazione del pennello sulla tela.

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“La geometria é la sintesi di tutto”

“La geometria, quando è certa, non dice nulla del mondo reale“

(Albert Einstein)

Ma a Paul Cézanne la superficie non interessa. La supera. Sceglie strutture stabili, con più dimensioni, potenti. Non importa che l’effetto sia grazioso, dipingere, secondo Paul, é”raggiungere armonia in numerosi rapporti”ma i suoi, sono piuttosto quelli di forza, tra spatola e corpo del colore. Meglio scolpire che sfumare. Gli autoritratti ce lo mostrano”bruttino”e in effetti é forse stato sempre scontento di sé; ha sofferto per le critiche impressioniste e si é isolato, sino alla sincope da polmonite (un temporale lo aveva sorpreso a dipingere en plein air…)

La montagna di Sainte Victoire non vibra come un’impressione, ma ha attorno un cielo spesso, su cui insistono altri volumi, e non c’é nulla che distolga dell’equilibrio.

Tutti i pezzi si potrebbero incastrare suonando così:

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“Tutte le anime sono sacre”

Marc Chagall non era francese. Nato a Vitebsk il 7 luglio del 1887, il suo nome russo era Mark Zacharovič Šagalov, abbreviato in Šagal. A suo dire un artista è “un evangelista, un santo, un profeta” e certamente non mostra timore nello spostare questa convinzione sulla tela, seppure con ironia, mossa da desideri discontinui. E’ un modernista moderato, un pittore che non si ferma alla superficie del quadro, ma vi introduce elementi immaginifici, a cui facciamo l’abitudine, e  che presto acquisiscono sapore vernacolare.

Chagall si sarebbe trovato bene dentro a una favola di Jean de La Fontaine, come quelle che illustra; un mondo in cui gli spazi non subiscono delimitazioni e il confine tra emozioni ed esterno si fa labile. Una dimensione in cui i colori sono messi in posa come in una rappresentazione teatrale e vita e speranza possono rifiorire protette dall’immaginazione.

Il suo uso del colore rende solida la composizione, anche più dell’eredità costruttivista delle avanguardie, che ancora si rintraccia nelle pennellate geometriche sullo sfondo. Ogni dato cromatico scandisce una dimensione espressiva gioiosa esclusiva, segue quello che si mescolava dentro a Chagall, armonioso e convincente allo stesso tempo. Non si tratta di opere scevre dalla realtà, ma dell’invenzione (nel senso più letterale) di un mondo altro, leggero. Le connotazioni suggerite non sono completamente surreali, spingono invece a cercare più a fondo, tentano di rappresentare sensazioni invisibili, ma assolutamente esistenti.

Ne La passeggiata (1918) il sorriso si schiude ad oltranza sul protagonista e su chi osserva il quadro: un vero e proprio manifesto della felicità. Un tentativo di sfuggire al mondo, nutrito dalla libertà stretta nella mano e inebriato dall’anima speciale di Marc Chagall.

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La passeggiata improvvisa (Franz Kafka – 1912)

“Quando la sera sembra ci si sia definitivamente risolti a restare a casa, si è indossata la veste da camera, dopo cena si siede al tavolo illuminato e si è iniziato un qualche lavoro o gioco, concluso il quale d’abitudine si va a dormire, quando fuori c’è un tempo ostile che rende naturale il rimanere a casa, quando ormai si è rimasti fermi così a lungo accanto al tavolo che l’andarsene non potrebbe che suscitare la sorpresa generale, quando le scale sono già buie e il portone sbarrato, quando ora, nonostante tutto, ci si alza presi da un disagio improvviso, ci si cambia la giacca, si ricompare subito vestiti per uscire, si dichiara di dovere andare, e lo si fa senz’altro dopo essersi brevemente accomiatati, si pensa, giudicando dalla rapidità con cui la porta è stata sbattuta, di essersi lasciati alle spalle più o meno contrarietà, quando ci si ritrova in strada, con membra che rispondono con particolare mobilità alla libertà inattesa che si è loro procurata, quando per quest’unica decisione si sente raccolta in sé ogni capacità di decisione, quando con evidenza maggiore del solito si comprende che, più che il bisogno, si ha la forza di operare e sopportare facilmente il cambiamento più repentino, e quando si cammina così per le lunghe vie – allora, per quella sera, si è usciti del tutto dalla propria famiglia, che s’allontana nel nulla, mentre noi, saldissimi, neri per l’assoluta nettezza dei nostri contorni, battendo con le mani dietro le cosce, ci si innalza alla nostra vera figura.”

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I Preraffaelliti, i bravi scrittori, e la gabbia degli “ismi”

“In pochi in tutta questa Parigi / viviamo di orgoglio e di bolletta. / Per quanto l’alcol ci appassioni / beviamo acqua fresca soprattutto / mangiando secco alquanto. Ad altri / vanno i piatti fini, i vini di marca. / Siamo i bravi scrittori”

Paul Verlaine nella sua ballata dedicata al decadentismo voleva tantissimo reagire al conformismo della società borghese vittoriana di fine Ottocento. La trasposizione pittorica di questo stato d’animo è la Confraternita dei Preraffaelliti; i suoi membri sono medievalisti, sensibili al gusto gotico, rifiutano il linguaggio visivo della pittura accademica e vogliono tornare indietro. A prima di Raffaello.

Le loro opere sembrano immobilizzate a crogiolarsi nella nostalgia del passato: John Everett Millais, William Holman Hunt, Ford Madox Brown, Dante Gabriel Rossetti (che del”nostro”sommo ha adottato anche il nome) e i loro soci, dipingono tratti fermi e pacati, con colori squillanti e parecchia energia. Niente è sfocato o appena intuibile, anzi, le evidenze sono stupende e l’ossessione per i particolari, già sintomi di interiorità, è lì a tenere la porta spalancata per il simbolismo.

Ruskin, che pure stava dalla loro, scrive due elegie dei dipinti preraffaelliti ed un saggio intitolato Preraphaelitism, (ci si mette anche lui) in cui ufficializza il loro posto nella pittura moderna e li paragona, tecnicamente, a Turner. La Pre Raphaelite Brotherhood si fonde con la letteratura contemporanea, si ispira minuziosamente a Shakespeare e alla poesia; cerca una rivoluzione. Il modo in cui i Preraffaelliti scelgono di farlo, con il torcicollo estetico, rischia tuttavia di inciampare nell’ennesimo ismo di maniera, che li accomuna e, talvolta, li costringe.

The germ era il loro giornale, nato per diffonderne le idee, ma ebbe davvero poco successo, sole quattro uscite; è anche però, il nome di un gruppo punk, premessa di molta musica successiva dalle atmosfere goticheggianti. Voglio allora dedicare a Lizzie Siddal (al secolo Elizabeth Eleanor Siddal, prima modista presso la boutique di Mrs Tozer, nella zona londinese di Leicester Square, poi modella prediletta dei Preraffaelliti e legata, in una travagliata storia d’amore, a Dante Gabriel Rossetti) fanciulla dai capelli rossi e fluenti protagonista di molte opere preraffaellite, una vera love gothic ballad, firmata Cure.

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Spazzapan: un “occhio” allo stato puro

Spazzapan a Torino è un caso a sé.

“Sono risolutamente contrario ad ogni criterio prestabilito di organizzazione del quadro. Ad ogni attività sistematica, ad ogni metodo. Vedo le più giovani generazioni seriamente afflitte o insidiate dal malanno della stilizzazione”

Per lui la paura di sbagliare è solamente ”effettiva deficienza di coraggio”, osa lasciare la sua pennellata ambire al colore,  puro.

Si concede il lusso di dimenticare la forma a favore della poesia.

I suoi quadri spesso non devono vedersela con il vero perché l’unica realtà sta nelle immagini, quelle mai esistite sulla terra, ma che possono pretendere all’eternità della fantasia.

La novità, la velocità, dell’inseguimento delle sue tinte violente sulla tela potrebbe suonare così:

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“… tutti amarono l’arte con geniale sfrenatezza“

Le pennellate sono rustiche, sporche, spesse, buttate. I contorni sono bagliori di un incendio.

Non c’é severità, ma totale presenza di dubbi. L’immagine non va cercata, perché i sensi sono la prima cosa che vedono i nostri occhi. Il volume scompare, ma la certezza che ci lascia é intima.

Tranquillo Cremona si firmava TC, quasi sempre in rosso, come se lo pronunciasse a voce alta. Usava il suo braccio al posto della tavolozza ed é per questo avvelenamento passato attraverso la pelle che é morto. Rivelando come possa essere profonda una passione, e sofisticato un destino.

“La melodia” é un quadro che non ha suono, ma se dovessi ascoltarlo in silenzio, mi parlerebbe così…

Spazio spazio, io voglio, tanto spazio

per dolcissima muovermi ferita:

voglio spazio per cantare crescere

errare e saltare il fosso

della divina sapienza.

Spazio datemi spazio

ch’io lanci un urlo inumano,

quell’urlo di silenzio negli anni

che ho toccato con mano.

Vuoto d’amore

(Alda Merini)

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“Cosa sarebbe la vita se non avessimo il coraggio di fare tentativi?“

VVG non era un pazzo.

Riprende dagli impressionisti colori liberi, sciolti, luminosi. Il lavoro é la sua frenetica ragione di vita, sia durante il giorno, che sul bordo del sonno e del manicomio. Gli input fitti, personali, ri-costruiscono cieli, cipressi, girasoli; annientano l’imitazione e aprono al contemporaneo.

Usa colori da sbandato, ma anche se forse é la”follia”a rivolgersi al futuro, non é l’essenziale. In fondo era un idealista: la predica laica, il sogno della scuola con Paul Gaugin. Tutto finito male, ma forse è proprio tutto questo che ha saputo dare spessore alle sue pennellate. Quello spessore che, ancora oggi, lo ha reso una rockstar della pittura e che ci dà la sensazione che sotto quel colore ci sia tanto a sostenerlo.

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“Dipingo le cose come stanno”

Henri de Toulouse-Lautrec se non avesse avuto la pittura, probabilmente, si sarebbe ucciso.

Cerca nei dipinti un’iniziativa assoluta, una maniera cosciente di aprire la porta sul contemporaneo. Il suo fatto pittorico é spontaneo quanto attuale per la Parigi del tempo. La ricchezza della sua famiglia e la sua opera, libera dalla schiavitù del riconoscimento, gli concede il lusso della verità. Ma anche due cadute da cavallo.

Due femori rotti.

L’altezza spezzata come prezzo da scontare per l’hobby da famiglia bene. Il padre Alphonse II, dopo queste disgrazie, smetterà completamente di considerare suo figlio 17enne che, pure, così degno lo ritrae.

Henri allora costruisce un mondo altro, suo. In quelle”maledette strade”di Parigi, nelle case chiuse in cui passa gran parte della sua vita, sino al Moulin Rouge.

Lì poteva essere.

 

Angoli al limite della Città, come al limite di se stesso é stato costretto a condurre la sua esistenza, ma con acume, sguardo e ironia tali da lasciare andare pennellate improvvise, immagini sensibili e pochi colori. Quelli che bastano per stampare su una sua affiche, la realtà sincera, che oggi lo farebbe sentire, almeno per noi, accettato e familiare.

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